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Trattato Italia-Libia: vecchi modelli per una nuova amicizia

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«Se chiudi la mano non stringerai che qualche granello,
se la tieni aperta avrai tutta la sabbia portata dal vento»
(proverbio Tuareg)
 
Lo scorso 2 marzo, con lo scambio dei rispettivi strumenti di ratifica tra il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e il leader libico Muammar Gheddafi è finalmente entrato in vigore il tanto discusso, e poco noto, “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista“, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 e ratificato dal nostro Parlamento con la legge n.7 del 6 febbraio 2009[1].
Come nostra abitudine, prima di esprimere valutazioni in merito ad un testo normativo riteniamo doveroso esaminarlo attentamente e metterne in luce tutte le implicazioni e conseguenze per i destinatari: così faremo pure in questo particolare caso con i 23 articoli che compongono il documento.
Questo trattato internazionale risulta essere di grande interesse già solo per il fatto che, come esplicitamente richiamato nel preambolo, le Parti ritengono di porre termine a quello che viene definito «doloroso “capitolo del passato”», vale a dire il contenzioso aperto per cui la Libia continuava a rivendicare riparazioni per i danni subiti in periodo coloniale[2], mentre l’Italia avanzava pretese risarcitorie per le lesioni degli interessi di nostri connazionali (persone fisiche e giuridiche) costretti ad abbandonare il paese nord africano in seguito ai fatti che portarono al potere il colonnello Gheddafi[3].
Sempre nel preambolo, troviamo poi il richiamo a quelle che sono considerate le basi sulle quali avviare questa nuova fase delle relazioni bilaterali: i profondi legami di amicizia, il comune patrimonio storico e culturale, l’impegno per il rafforzamento della pace, della sicurezza e della stabilità, in particolare nella regione del Mediterraneo, e della costruzione di forme di cooperazione ed integrazione a livello regionale, attraverso l’Unione Europea e l’Unione Africana. In definitiva, il rispetto reciproco, la pari dignità e la piena collaborazione dovrebbero consentire un rapporto pienamente paritario e bilanciato tra i due paesi, rapporto che viene definito «speciale e privilegiato», caratterizzato da un forte ed ampio partenariato.
Passando alla parte dispositiva dell’accordo, evidenziamo come nei primi sette articoli vengano specificati i principi generali che reggeranno le future relazioni tra le Parti.
Tra questi, si richiama, in maniera forse pleonastica, il rispetto della legalità internazionale, la centralità delle Nazioni Unite e l’impegno all’adempimento in buona fede degli obblighi internazionalmente assunti (art.1)[4], il rispetto della uguaglianza sovrana dei contraenti (art.2)[5], l’impegno a non ricorrere alla forza (art.3)[6], la reciproca non ingerenza negli affari interni (art.4), l’impegno ad adottare modalità pacifiche di risoluzione delle eventuali controversie (art.5), il rispetto dei diritti umani, conformemente alle legislazioni nazionali ed alla luce della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (art.6), l’avvio di un comune spazio di dialogo tra culture e civiltà (art.7).
Al di là del valore di simili richiami, particolare attenzione deve porsi, secondo noi, al dettato del secondo comma dell’art.4 in cui si prevede che «l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia». Difatti, tale obbligazione risulterebbe in conflitto con l’impegno precedentemente assunto dal nostro paese in virtù del Patto Atlantico[7], l’art.5 del quale stabilisce espressamente che «Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica». Senza considerare gli accordi bilaterali italo-statunitensi relativi alle basi militari sul nostro territorio che, a questo punto, non potrebbero essere utilizzate per eventuali operazioni da condurre contro la Libia. Indubbiamente, ci troviamo dinanzi ad una fonte di possibili controversie o, per lo meno, ad un nodo che rischia di generare conflitti interpretativi prima, applicativi poi, tra diversi strumenti giusinternazionalistici.
Passando dunque al Capo II del trattato, rubricato in maniera evocativa “Chiusura del capitolo del passato e dei contenziosi”, subito troviamo il contestato art.8, “Progetti infrastrutturali di base”, che per molti osservatori rappresenta il vero “prezzo” pagato dall’Italia per addivenire alla suddetta “chiusura”. In effetti, è questa la norma che prevede l’impegno del nostro paese «a reperire i fondi finanziari necessari per la realizzazione di progetti infrastrutturali […] nei limiti della somma di 5 miliardi di dollari americani, per un importo annuale di 250 milioni di dollari americani per 20 anni» e, contestualmente, in maniera condizionata, il fatto che saranno aziende italiane a provvedere «alla realizzazione di questi progetti» e il governo italiano a gestire direttamente i fondi assegnati.
Dall’altra parte, la Libia «rende disponibili tutti i terreni necessari per l’esecuzione delle opere senza oneri», agevola il reperimento dei materiali e l’espletamento delle procedure doganali, esenta da imposte le importazioni e i consumi di energia elettrica, gas, acqua e linee telefoniche.
Questo tipo di aiuti vincolati, se da un lato consentono a paesi emergenti come la Libia di ricevere risorse finanziarie importanti e di realizzare interventi funzionali al proprio sviluppo, dall’altro però rappresentano forme di neo-colonialismo nemmeno troppo celato; inoltre, obbligando il paese destinatario ad affidare la realizzazione delle opere solo a imprese del donante, si realizza una distorsione del mercato concorrenziale con un aumento dei costi di oltre il 30% rispetto a quanto si spenderebbe appaltando le opere a imprese locali o al miglior offerente scelto con un bando internazionale[8].
Per quanto riguarda, invece, il regime fiscale cui vengono sottoposte le operazioni di cui sopra, l’art.8 prevede espressamente l’esenzione per le sole importazioni e utenze (luce, gas, acqua e telefono). Vi è la possibilità, dunque, dell’insorgere di problemi per il fatto che, ad oggi, non sia ancora stata stipulata una specifica convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Libia, per cui aziende italiane si troverebbero soggette ai due regimi fiscali. Riteniamo che, per quanto riguarda l’Italia, la soluzione possa rinvenirsi nella norma del Testo unico sulle imposte sui redditi[9] che concede un credito a fronte delle imposte pagate all’estero da soggetti italiani. Inoltre, ricordiamo che la Libia non è tra i paesi inseriti nelle “black lists” delle società controllate estere[10] né dei paradisi fiscali[11].
La norma che segue (art.9) disciplina il funzionamento della Commissione mista che gestirà l’affidamento della realizzazione delle opere infrastrutturali e stabilisce impegni per il governo libico per tutelare le imprese italiane discriminate nel passato.
L’art.10, dal canto suo, enuncia speciali iniziative da avviarsi a beneficio del popolo libico: costruzione di edifici ad uso abitativo, assegnazione di borse di studio, programmi di cura specializzati, pagamento di pensioni e restituzione di reperti archeologici.
I nostri concittadini espulsi dalla Libia, invece, beneficieranno di un trattamento privilegiato per l’ottenimento visti di ingresso per il paese nord africano senza limitazioni o restrizioni di sorta (art.11).
Viene poi costituito un Fondo Sociale (art.12) per la realizzazione delle iniziative di cui all’art.10 e ci si impegna a raggiungere una soluzione concordata per quanto riguarda i crediti e debiti di aziende italiane nei confronti delle amministrazioni libiche (art.13).
Con l’art.14, che istituisce un Comitato di Partenariato bilaterale e periodiche consultazioni politiche, si apre il Capo III del trattato, “Nuovo Partenariato bilaterale”, in cui vengono elencati gli ambiti e le modalità di cooperazione. Nello specifico, si tratta di cooperazione scientifica (art.15), culturale (art.16), economica e industriale (art.17), energetica (art.18), nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina (art.19), nel settore della difesa (art.20), nel settore della non proliferazione e del disarmo (art.21), a livello parlamentare e tra enti locali (art.22).
Interessanti, per gli sviluppi futuri che le relazioni tra i due paesi possono avere, sono le norme riguardanti il sostegno alle piccole e medie imprese e alle società miste (art.17, comma 3), il rafforzamento della collaborazione nel settore energetico, con particolare rilievo alle fonti rinnovabili (art.18), la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche da affidare a società italiane (art.19, comma 2) e lo scambio di esperti, istruttori e tecnici militari (art. 20, comma 1). C’è da considerare, a questo proposito, che la Libia è posta in una posizione geografica strategica dal punto di vista della penetrazione commerciale nel nord Africa, e rappresenta un avamposto economicamente attraente per nostri imprenditori; inoltre, già ora importanti quantitativi di petrolio e gas naturale utilizzati in Italia provengono da giacimenti del deserto libico, così come, purtroppo, numerosi stranieri clandestini: avviare sinergie rafforzate in questi ambiti risulta quindi vincente per entrambe le Parti, sempre che si attui quel “rapporto pienamente paritario” richiamato nel Preambolo.
E per concludere all’italiana, “a tarallucci e vino“, l’ultima disposizione dell’art.23 (oltre a disciplinare l’entrata in vigore del trattato stesso) istituisce una ricorrenza comune: la Giornata dell’Amicizia italo-libica, il 30 agosto, data di sottoscrizione dell’accordo. Questo perché, per quanto importanti possano essere le nostre relazioni internazionali, non vi è controversia che non si possa risolvere davanti ad una bella tavola imbandita a festa!
 
(foto: 30 agosto 2008 – incontro tra Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi in Libia
fonte Reuters)


[1] Cfr. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n.40 del 18 febbraio 2009, Legge 6 febbraio 2009, n.7, “Ratifica ed esecuzione del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista, fatto a Bengasi il 30 agosto 2008“.
[2] Ricordiamo che la Libia fu colonia italiana dal 1912 al 1943.
[3] Ricordiamo il colpo di stato dell’ottobre 1970, la nazionalizzazione di tutte le imprese straniere e l’espulsione dei cittadini italiani (salme comprese) dalla Libia.
[4] Si veda il principio “Pacta sunt servanda” e il relativo art.26 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 che dispone: «Ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere da esse eseguito in buona fede».
[5] Si veda il diritto all’autodeterminazione dei popoli così come disposto dagli artt.1, par.2, 55 e 56 della Carta delle Nazioni Unite (o Carta di San Francisco, 1945) e dai successivi Patti internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociale e culturali (1966).
[6] Si veda il divieto di ricorso alla minaccia o all’uso della forza ex art.2, par.4 della Carta delle Nazioni Unite: «I Membri (dell’Organizzazione) devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza […]».
[7] Cfr. Trattato NATO, firmato a Washington D.C. il 4 aprile 1949.
[8] Cfr. comunicato stampa della ONG ActionAid del 3 marzo 2009 in http://www.actionaid.it.
[9] Cfr. D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi, art.165.
[10] Cfr. D.M. 21 novembre 2001, art.167.
[11] Cfr. D.M. 23 gennaio 2002, artt.110 e segg.

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