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Miracolo a Sant’Anna

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I Buffalo Soldiers erano soldati afroamericani mandati a morire in Europa per una guerra che non gli apparteneva e da cui non avrebbero mai ricavato nulla. Perché in patria, i neri, negli anni quaranta, ancora non avevano nessun diritto. E nell’esercito oltre al grado di sergente non ci sarebbero mai arrivati. Questo, forse, è il tema che Spike Lee ha meglio elaborato nel suo ultimo film, Miracolo a Sant’Anna, tratto da un libro di James McBride. La storia raccontata, anche se basata su fatti storici (la strage nazista a Sant’Anna di Stazzena) si prende la libertà di una rielaborazione narrativa dei fatti stessi per espandersi in una possibile riflessione sui rapporti umani, l’atrocità della guerra, la fede e Dio. Sarebbe dunque sbagliato interpretare il film come una ricostruzione storica, anche se lo stravolgimento di come sono andate le cose (nel film è colpa di un partigiano se i nazisti uccidono 560 civili, tra cui donne e bambini) sta già provocando una serie di polemiche tra le associazioni di partigiani e in un clima politico di forte revisionismo storico l’onestà intellettuale di Spike Lee potrebbe essere utilizzata in modi del tutto inappropriati. Il regista newyorchese infatti sembra inconsapevole di quanto la ferita lasciata dalla Seconda Guerra Mondiale e dal Fascismo sia ancora viva in Italia, la cui memoria storica sta subendo clamorose mutazioni. In quanto regista e artista Spike Lee ha affrontato un’operazione filmica ben consapevole delle polemiche che tale lavoro avrebbe potuto creare, forse ricercandole coscientemente, ma anche dando l’impressione di non avere la stessa abilità nel trattare il materiale italiano (quindi la rappresentazione dei partigiani e quella degli abitanti del paesino di Stazzena) rispetto a quello riguardante i Buffalo Soldier e la situazione dei neri in America. In questo modo si crea un scissione tra una dimensione storica che ha radici ben profonde nella cultura e nella poetica di questo regista e quella finzionale di una ricostruzione cinematografica che mostra ancora una volta gli italiani come un popolo di gente buona e un po’ superstiziosa, mai spinta verso il male e anzi capace di accettare il diverso più di quanto gli stessi bianchi americani sono stati capaci di fare. Alcune situazioni, soprattutto quelle legate ad Angelo, un bambino ritrovato da uno dei soldati neri, trasportano la pellicola su un piano magico-poetico di stucchevole intensità, nel quale i drammi della storia sfumano in una metafisica rappresentazione della realtà, nella quale, appunto, sembrano ancora possibili i miracoli. Lo sguardo di Spike Lee non è mai pudico o intriso di pietà, anzi il regista mette in scena senza paure gli orrori del massacro e dei corpi trucidati, per poi lasciare un minuto di schermo nero, dopo la conclusione del film, affinché quelle immagini abbiano il tempo di depositarsi nella mente dello spettatore, una pausa necessaria per tornare nel mondo fuori la sala, dove questi orrori ancora esistono e dove il senso di continuare a mostrarli diventa sempre più incerto. Basandosi su un romanzo, la struttura del film, in apertura, ricerca una complessità di piani temporali che poi si appiattisce nella serie di avvenimenti che porteranno fino al massacro. Il mistero iniziale (un omicidio inconcepibile, una testa di marmo ritrovata nella casa dell’assassino, le medaglie al valore) spinge un giornalista ad interessarsi alla vita di questo uomo apparentemente tranquillo che all’improvviso uccide uno sconosciuto in un ufficio postale. La sua storia sarà anche la storia raccontata da Spike Lee, che abbandona un punto di vista dall’interno legato al personaggio per farsi narratore onnisciente ed affrontare una vicenda che perde la sua storicità per diventare una favola morale, dove il dubbio e l’orrore della guerra si confondono con il bisogno d’amore e di speranza di uomini, donne e bambini, in un tessuto di immagini che non riesce mai a diventare testimonianza reale di quanto si sforza di narrare.

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